venerdì 1 maggio 2009

un lettore mi ha scritto

Al Corriere di Como,
sono indignato dal comportamento dei tifosi che hanno intonato cori razzisti contro un giocatore di colore durante la partita tra Juventus e Inter.
Poiché questi episodi si ripetono con preoccupante frequenza negli stadi devo pensare che gli italiani, e non solo essi, siano razzisti?
Com’è possibile debellare questo intollerabile atteggiamento dei tifosi negli stadi?
Cosimo Lenti


Caro lettore,
il dibattito seguito ai cori di intolleranza nei confronti del calciatore Balotelli, italiano di colore, ha toccato vette di inimmaginabile degrado linguistico e sconfortante rilassamento della ragione.
Abbiamo imparato che negli stadi alcune poco signorili espressioni hanno diritto di cittadinanza: “scemo, cornuto, figlio di…, devi morire” e via maledicendo sono considerate naturali e logiche esternazioni di sensazioni e sentimenti dettate dai piedi senza alcun afflato del cuore o della ragione.
Eppure chi ama il calcio, ed io sono tra quelli, sa che il gioco del pallone trova nei piedi dei calciatori solo il mezzo, neppure più nobile, per liberare intelligenza, cuore, fantasia, estro, creatività, passione.
Il gol, la rete che vibra, il pedatore sommerso dai compagni, la pazzia contagiosa dei tifosi che si abbracciano senza distinzione di sesso o condizione sociale, è liberazione dello spirito, esplosione di felicità, sfogo che vale almeno un ciclo completo dallo psicologo al costo di un biglietto d’ingresso allo stadio.
Questa sorte di follia collettiva che dura novanta minuti è in realtà una rappresentazione teatrale nella quale ogni attore, calciatore, tifoso, arbitro, recita volonterosamente la sua parte.
Il campione dribbla, lo spettatore applaude e impreca, l’arbitro sbaglia a prescindere (come direbbe Totò).
La partita è tragedia, commedia, farsa: la trama è sempre la stessa, l’imprevedibilità degli attori e la cieca irrazionalità della fortuna regalano tuttavia ogni volta nuove e impreviste emozioni.
A teatro quando cala il sipario tutto finisce, rimangono solo pacate o vive sensazioni.
Allo stadio, quando l’arbitra fischia la fine, comincia un’altra partita che nulla ci azzecca con quella giocata sul campo.
La moviola viviseziona ogni sussulto, il saccente paludato sentenzia dalla poltrona, la televisione spegne le telecamere sul campo ed accende i riflettori sui protagonisti.
Il calcio parlato assume il sopravvento su quello giocato.
Le disquisizioni assumono allora valore filosofico e letterario, si colorano di ammonizioni moralistiche e filologiche.
Si dispensano saggi principi e regole di comportamento: “scemo” si può intonare, “devi morire” è sconsigliabile, “bastardo” deprecabile, “negro di m.” proibito…
La miseria morale di una classifica delle espressioni di dileggio è squallido segnale dell’insignificanza della ragione annichilita dalla prepotenza dell’ignoranza e dell’irragionevolezza.
L’espressione o l’atteggiamento intollerante dei tifosi peraltro sempre nei confronti degli avversari ( i “diversi” con braghe e maglietta dei nostri colori sono invece “uguali”), a mio avviso, va severamente punito e osteggiato con provvedimenti adeguati.
Io credo, tuttavia, che certi deprecabilissimi atteggiamenti di molti tifosi durante quei novanta minuti di straripante incontrollata ebbrezza, non siano il segnale di un atteggiamento “razzistico”, ma solo espressione di scarsa o inesistente educazione oltre che di una ridotta padronanza lessicale.
Allo squallore della questione non credo sia estranea la fumosa verbosità di molti commentatori, la saccenteria di troppi soloni, la mancanza di misura nei giudizi, la pretestuosa accentuazione di presunte intenzioni o comportamenti degli attori sul campo e fuori di esso.
Divieti, multe, riprovazioni, squalifiche, forse possono essere lieve argine al degrado.
Restituire al pallone la dignità di un gioco fatto con cuore e ragione e non solo con i piedi, appare ambizioso ma necessario obiettivo.
Un’iniezione robusta di educazione accompagnata da una rivisitazione del dizionario per tutti i protagonisti appare utile allo scopo.
Cordialità

Una storia forse vera

La propaganda elettorale

Borgo Gentile, un paese di pochi abitanti.
Le case tutte bianche.
Intorno la campagna.
Vigneti e uliveti a perdita d’occhio.
Il calendario non lo dice, ma oggi è giorno di festa.
Un carro bianco, fiori colorati ad ornarlo.
Quattro cavalli maestosi, il passo solenne, a trainarlo.
A cassetta un uomo, le lunghe redini fra le mani.
Dietro, sorridenti, moglie, figli, parenti ed amici più cari.
Davanti la banda.
Con tutti gli strumenti, anche il tamburo.
I suonatori con la divisa della festa.
Dai loro cuori, attraverso trombe e clarini, una musica allegra, ma malinconica.
Gregorio, l’uomo a cassetta, saluta felice il paese.
Domani deve partire.
Per il Paradiso.
E’ questa un’usanza di Borgo Gentile.
I morti, prima di morire, attraverso la piazza e le vie, per avvertire.
“Amici, domani non mi cercate!
La mia nuova casa è lassù, in Paradiso!”
E questo per tutti.
Poveri e ricchi, letterati e analfabeti, onesti e imbroglioni.
Una volta nella vita, al centro dell’attenzione, salutati e riveriti da tutti.
Avviene così a Borgo Gentile perché, tale Giovanni, un giorno era morto, ma poi aveva dovuto tornare in vita.
Arrivato alla soglia del Paradiso, un angelo gli aveva detto: “Giovanni, mi spiace, ti devo rimandare sulla terra.
Come vedi, oggi c’è molta confusione, dovresti aspettare a lungo.”
Giovanni, anche i morti sono curiosi, lo sguardo intorno per vedere, capire.
“Il Paradiso mi sembra davvero niente male!” ed era tornato a raccontare.
Per questo la morte a Borgo Gentile è un momento di festa.
Ma ahimé, questo mal si concilia con chi non crede nel Cielo.
Il sole, la luna, le stelle non esistono!
Sono solo fantasie, miraggi, sogni colorati!
“Cittadini, ragionate!
Da oggi il funerale solo da morti.”
L’ordinanza firmata dal sindaco e dal consiglio comunale.
Non più il saluto agli amici dal carro ornato di fiori.
E neppure attraverso il paese, ma direttamente al cimitero.
Per questo a Borgo Gentile adesso nessuno vuole morire.
Si sono tutti attaccati alla vita.
E non la vogliono lasciare.
E quando è il momento, questo è il destino delle cose e degli uomini, è pianto e tristezza.
Chi muore e chi resta grida, piange, si dispera.
Ma è ormai tempo di elezioni.
Un cartello, una promessa.
“A Borgo Gentile sarà vietato morire.”
Anche Giovanni, quello che era dovuto ritornare in terra, sia pure per poco, dalla sua nuvola ha letto.
E’ preoccupato.
Aspetta da tempo i suoi vecchi amici.
Ha voglia di fare una partita a carte con Gigi, Cosimino e Gregorio.
“Fra poco, ha detto l’angelo che tiene la contabilità del Cielo, arriveranno!
Ho già riservato una nuvola per loro, laggiù!”
“Ma adesso, con questa nuova ordinanza del sindaco…” pensa Giovanni.
Di fronte il buon Dio, che legge nell’anima dei vivi ed anche dei morti, lo guarda e sorride.
“Stai tranquillo Giovanni, è solo propaganda elettorale!”
Giovanni adesso è sereno.
E corre sulla sua nuvola rosa a preparare le carte.