mercoledì 25 marzo 2009

Idriz e fantasia

Caro "anonino",
è stato per me piacere non già epidermico, piuttosto dello spirito, avere letto il suo bel commento alle mie farneticazioni della fantasia che ha ormai definitivamente prevalso sulla razionalità...
Par di riassaporarla l'acqua che "buscia".
L'acqua senza sapore è il pensiero semplice, freddo, vero, reale.
Poi in quest'acqua (nei pensieri) sciogli la bustina di "idriz" (la fantasia) ed ecco il miracolo dell'acqua che "buscia", ovvero del pensiero arricchito di sentimento che commuove e ti fa vibrare "dentro" sull'onda dei ricordi...
Queste note sballate sono la prova provata che l'acqua che "buscia" o meglio il ricordo impreziosito dalla fantasia è reale, accidenti se è reale, al punto che quasi quasi crediamo e ci convinciamo.. che davvero allora tutto fosse così "frizzante e saporito"...
Fortuna

Il dialetto a scuola

Domenica 22 marzo un lettore mi mandato questa lettera curiosa e stimolante

Al Corriere di Como,
ho letto sul vostro giornale che un comasco su dieci tra le mura di casa parla in dialetto, uno su quattro alterna italiano e dialetto, uno su cinquanta parla solo ed esclusivamente in dialetto con gli estranei.
Sono numeri e percentuali che però probabilmente riguardano solo le persone di una certa età.
Io, in città ed anche nei paesi, non sento mai parlare in dialetto i giovani e quindi credo che il dialetto sia destinato a sparire.
Non sarebbe una bella cosa se, per non perderlo, lo si insegnasse a scuola?
Antonio Perucci




Caro lettore,
mettere il dialetto tra le materie scolastiche?
La mia prima spontanea risposta, essendo uno di quei venticinque comaschi su cento che alternano italiano e dialetto, è chiarissima: "Chi a Com, gh'hemm minga temp, num, de dagh a trà ai ball de la gent!”
Traduco in simultanea: “ Qui a Como, non abbiamo tempo, noi, di dare retta alle “balle” della gente”.
La risposta è chiara sia in dialetto che in italiano: no al dialetto in aula.
No, perché il dialetto non si può imparare, cresce insieme a noi, ce l’hai dentro da sempre.
Il dialetto non è solo un mezzo per comunicare come qualsiasi lingua, costruita su rigide regole grammaticali e sintattiche, è molto di più,
E’ tradizione popolare e culturale fedele nel tempo, insensibile agli umori delle mode.
Passione, amore, compiacimento, delusione, rabbia, ironia, sono sentimenti che in dialetto prendono forma e, attraverso la leggerezza, o la pesantezza, comunque coinvolgente dei termini, affascina e trascina.
Nella ricchezza lessicale del dialetto il dramma si stempera, la battuta anche indelicata non scandalizza, se mai induce alla risata.
Caro Antonio, chi auspica che il dialetto sia insegnato a scuola non vuole bene alla scuola e neppure al dialetto.
Io amo il dialetto, qualche volta lo parlo, lo ascolto con piacere, mi intriga coglierne lo spirito di saggezza popolare.
Distinguo il milanese dal comasco e dal ticinese.
Dolce, avvolgente e musicale il vernacolo meneghino, duro e spigoloso quello dei cugini ticinesi, a metà strada tra i due il nostro.
Il dialetto a scuola sarebbe la morte del dialetto stesso e ulteriore dispregio all’italiano.
Meglio riservare le intraducibili espressioni dialettali ad occasioni più intriganti come avvenne in tempi lontanissimi ad un amico di Monte Olimpino in una balera di Mendrisio.
Al suo garbato invito “vuole ballare?” rivolto in forbito italiano ad un “belèe de tosa” si sentì rispondere “Istù, sum sciàa par quèll”” in un raggelante teutonico vernacolo.
La straripante forza espressiva del dialetto come usuale mezzo di comunicazione diventa ostacolo per i ragazzi nell’apprendimento dell’italiano.
Lo sapevano, e lo sanno anche oggi, molti genitori che, pur parlando spesso in dialetto tra loro, pretendono che i loro figli si esprimano in italiano.
Una volta mi trovai a fare gli esami di maturità in un paese dove tutti, studenti e professori, parlavano in dialetto.
Sono rimasto ammirato dai ragazzi e ne ho premiato l’impegno per la prontezza con cui traducevano le domande rivolte loro italiano, pensavano la risposta in dialetto e replicavano in italiano.
Il colloquio di inglese era un vero e proprio raid linguistico: dall’inglese all’italiano, dall’italiano al dialetto, dal dialetto all’inglese nelle domande, percorso inverso nelle risposte.
L’è mej stà schisc.
Lasciamo il dialetto dov’è.
Ciciarem in piazza e sul lagh, ma a scuola, per favore parliamo in italiano.
E’ il mio parere, il parere di uno che al “Te se regòrdet?” di qualche amico meno giovane si arrende a quel dolce “magon” intraducibile in italiano.
La ringrazio per la sua lettera.
“Adèss però l’è mèj dàghen on tàj”…
Cordialità

martedì 17 marzo 2009

Il drago verde

Domenica sul Corriere di Como una lettrice mi ha scritto una bella lettera.
Mi piace riproporla insieme al mio commento

Il vostro giornale ha dato notizia dell’iniziativa del comune di San Siro, in alto lago poco dopo Santa Maria Rezzonico, di installare nella piazza del paese una fontana dalla quale i cittadini possono prendere del tutto gratuitamente a piacimento acqua naturale o gasata.
Credo che sia un bel risparmio per molte famiglie non dovere più comperare l’acqua al supermercato ed anche per il comune che deve smaltire la plastica delle bottiglie.
In questi tempi di crisi finalmente una buona iniziativa concreta.
Non vi sembra che altre amministrazioni dovrebbero copiare l’idea?
Perché se ne è parlato così poco?
Perché non si fa anche a Como?
Distinti saluti
Maria Fontana

Cara lettrice,
le rispondo pescando nella memoria del tempo .
“Ti offro da bere al Drago Verde” : tono e parole dell’invito di un amico incontrato casualmente in “vasca”.
La “vasca” è il primo tratto di via Vittorio Emanuele partendo da piazza Duomo, cosiddetto perché da sempre è il luogo di passeggio (su e giù) di moltissimi comaschi.
E si è avviato verso piazza Cavour.
Si è diretto verso la bellissima fontana (eccolo il drago verde) e mi ha invitato a bere a volontà.
Mi sono chinato, un po’ goffo nella mia imperizia, ed ho bevuto a garganella.
L’acqua era fresca, buona e per di più gratis.
Da allora anch’io, agli amici, offro da bere al “drago verde”.
Ho ritrovato in casa fra le cose che non si usano più ma che non si buttano perché non si sa mai, un aggeggio ingegnoso che si trasforma facilmente in bicchiere.
Mi è stato utilissimo secoli fa quando accompagnavo le mie piccole in bicicletta ai giardini a lago, adesso lo uso per me e per i miei amici non schizzinosi.
Da molti anni passo le vacanza in un bellissimo paesino del Salento, in Puglia. Là, la gente fa la fila alla fontana per rifornirsi di acqua, moltissime case hanno sul terrazzo un grande contenitore per l’acqua o la cisterna in giardino.
La preziosità di questo elemento la tocchi con mano e la vedi con gli occhi.
Queste note, cara lettrice, mi sono state suggerite dalla sua bella lettera a proposito della lodevole iniziativa di un comune dell’alto lago di installare una grande fontana in centro del paese dove i cittadini possono riempire le bottiglie di acqua naturale o effervescente e portarsela a casa senza spendere nulla.
L’effervescenza, quelle bollicine di anidride carbonica, che tanto piaciono, non è recente conquista.
I meno giovani forse ricordano le bustine di Idriz o di Idrolitina, intrugli miracolosi che trasformavano l’insapore acqua del rubinetto in bibita frizzante, gustosa e ambita.
Lei ha ragione, signora Fontana, acqua effervescente o naturale per tutti e gratis è concreto spot graditissimo al portafoglio dei cittadini e utilissimo alle casse del comune perché comporterà una riduzione dei rifiuti di plastica delle bottiglie e quindi un minore costo per il smaltimento.
L’iniziativa sembra avere trovato entusiasti proseliti: cinquantaquattro comuni di Brescia hanno copiato il progetto ribattezzato “punto acqua” ed entro un mese altri cinquantatre si aggiungeranno alla lista.
Non so quanto il successo dell’iniziativa possa piacere a coloro che del commercio di acqua vivono, tuttavia, cara signora, io mi associo al suo entusiasmo.
In casa mia, in verità, mia moglie ed io da tempo beviamo l’acqua del rubinetto (senza bustine), mia figlia no, lei usa acqua frizzante ma non troppo.
Il mio entusiasmo nasce dall’intrigante idea di potere invitare i miei amici al solito “drago verde” e, porgendo il mio vecchio bicchiere di plastica, chiedere “naturale o gassata?” con malcelata “effervescente naturalezza”.
Si realizzerà il mio innocente sogno?
Ho speranza che sindaco ed assessori leggano queste note.
Poi chissà… non poniamo limiti ala Provvidenza.
Ultima nota: l’acqua è uno dei temi dell’Expò 20015.
Fra le mille proposte avanzate il “punto acqua” non mi sembra affatto sfigurare, anzi…
Signora Fontana, il suo nome sembra inventato per l’occasione, la ringrazio per le sue osservazioni.
Cordialità

Quelle otto lunghissime ore

"La cruna del lago" è rubrica di divagazione qualche volta seriosa, più spesso leggera, curata dall'autore di queste note sul mensile "Como e dintorni".
Il tema di questo mese è per me intrigante e inquietante.
Varrebbe discuterne.

"La cruna del lago" di renzo romano

Quelle otto lunghissime cortissime ore

Un amico carissimo, qualche mese fa, è stato sottoposto ad un complicato intervento al cuore.
Mi ha raccontato con estrema delicatezza e reticenza, quasi di timore, che da allora è tormentato da un pensiero inquietante.
Ascoltiamolo.
“Dottore, ma dove ero io in quelle otto ore in cui la mia vita(vita?) dipendeva da una macchina?”
Il cardiochirurgo mi ha guardato e mi ha sorriso, soddisfatto per la completa riuscita dell’intervento.
Mi ha sorriso, ma non mi ha risposto.
Già dove sono stato in quel lunghissimo (per i miei cari coscienti) e brevissimo( per me incosciente) intervallo di tempo?
Il mio corpo era lì, steso su un lettino, mentre attorno si agitavano scientemente medici e infermieri.
Lo hanno visto in tanti, e tutti sono pronti a giurare che ero proprio io quella persona (persona?) piena di tubi e fili, distesa su una specie di tavolo bianco e illuminata da lampade accecanti.
Ma l’altro, o forse lo stesso io, quello che non si vede, non si tocca, ma si sente, eccome si sente, dov’era?
La domanda è intrigante.
La razionalità si scontra con ogni possibile risposta.
L’altro mio “io”, comunque lo si chiami, pensiero, anima, soffio vitale, sentimento, non era lì con me perché non ho traccia della sua presenza nella memoria: otto ore di vuoto assoluto.
Tento di dare ordine ai miei pensieri.
Se questo “io” cessa di esistere al momento in cui una macchina tiene in vita l’altro “io”, allora significa che gli “io” sono due: uno che vedi e tocchi, l’altro che senti, ma che non sono legati.
Spero di non essere blasfemo se affermo che il primo “io” può vivere anche senza il secondo.
Sul secondo “io”, quello che non si vede, non so dire se può esistere senza il primo. Io non l’ho sentito in quelle otto ore, pertanto dovrei dedurre che se n’è andato (chissà dove) per ritornare al momento del risveglio del primo “io”.
Mi accorgo che i pensieri si avviluppano in un vortice di razionale irrazionalità che va oltre le mie capacità di intuire, non gia di comprendere, che cosa si nasconde dietro la mia domanda: “dov’ero in quelle otto ore?”
Vita, anima, pensiero: confesso la mia assoluta incapacità non solo di definirli, ma neppure di descriverli.”
Dopo questa rassegnata dichiarazione d’impotenza della ragione il mio amico mi ha guardato in attesa di qualcosa.
L’ho guardato, ho sorriso, proprio come il cardiochirurgo.
Poi il silenzio

venerdì 13 marzo 2009

Baradello

Giovedì sera ho avuto il privilegio di essere stato invitato dagli "Amici del Baradello" per parlare di "Expò e scuola".
La cena alla baita, complimenti veri davvero al cuoco, forse non ha favorito la lucidità del mio raccontare, tuttavia il piacere di vedere attorno volti soddisfatti e curiosi e la riscoperta di vecchie amicizie rese labili e impalpabili da un calendario irrispettoso, ha colorato la mia serata di bellissime sensazioni.
L'incomparabile panorama della città visto dal Baradello grazie ad una serata straordinariamente nitida ha fatto il resto.
"Expò e scuola" sono temi interessanti che forse toccheranno il nostro futuro vivere.
Quel "forse" fa la differenza con la certezza di un gruppo di amici, una baita accogliente, una cena straordinaria nella sua miracolosa semplicità, il cuore che si apre di fronte alla meraviglia di una città che, vista dall'alto, appare immeritato dono del Cielo.