venerdì 25 dicembre 2009

PITAGORA, IL CANE CON IL PALLINO DELLA GEOMETRIA

Torna il prof Mobius con un nuovo libro "Pitagora, il cane con il pallino della geometria".
E' il naturale proseguimento de "Le veline fanno bene alla matematica" pubblicato lo scorso anno.
L'incredibile prof, immaginifico quanto reale, dissacrante e riguardoso, ironico e serioso, indifferente e partecipe, distaccato e coinvolto, complice e avversario dei suoi alunni, ferocemente critico dell'elefantiasi della scuola ma innamorato dell'insegnamento, racconta questa volta le sue piccole grandi avventure agli esami di maturità.
Coloro che fossero interessati ad avere il libro possono farne richiesta all'indirizzo prof.mobius@grisoni.com sino all'esaurimento delle copie disponibili oppure al mio indirizzo renzo.romano@alice.it

mercoledì 11 novembre 2009

Il trionfo della cultura

Settembre è il mese più bello dell’anno.
Estate e autunno si sfiorano, i colori si addolciscono, la natura ritrova pacatezza e serenità dopo l’esplosione di luce e di sole, le giornate si accorciano, la ragione riprende il sopravvento sulla fantasia.
Prevale tuttavia l’umore e l’inquietudine di rientrare nella scena del vivere quotidiano.
Il ritorno ai miei luoghi sia pure dopo le vacanze è commozione che mi tocca nel profondo.
Mi sciolgo dentro quando sull’autostrada intravedo Brunate da lontanissimo, intruppato sulla mia vecchia carretta piena di mozzarelle freschissime di quelle che si sciolgono in bocca come usano dire nel Salento, vini profumati di terra rossa, olio che più puro e stravergine non c’è, olive appena colte, pomodori freschissimi.
Il mio cuore è tutto con quel grande che ha scritto “il viaggio più bello è quello del ritorno a casa”, eppure non ho animo adesso di raccontare storie di casa mia.
E allora addormento la ragione e il calendario e mi tuffo nel ricordo di una serata estiva in una bellissima cittadina in quel del Salento.
Eccone la cronaca quasi fedele.
“Il trionfo della cultura” mi sembra il titolo più appropriato a questa storia quasi vera davvero.

La via principale che attraversa il paese si allarga, diventa piazza, rende omaggio ad un antico palazzo, l’antica dignità non ancora scalfita dai secoli.
Di fronte ad esso, forse per sfruttarne il fascino, un palco, il pavimento di legno, tubi di ferro a sostenerlo.
Attorno luci colorate ed altoparlanti petulanti ad offendere gli occhi e disturbare i timpani.
Stasera spettacolo.
Cultura.
Balli e canti brasiliani per la gioia dello spirito e il piacere della vista per chi non ha voluto, o potuto, lasciare il paese per le tonificanti acque del salatissimo mare Jonio.
E’ un regalo alla cittadinanza da parte di chi gestisce la cosa pubblica.
Strade dissestate, scuole malandate, servizi carenti, possono aspettare.
La piazza già affollata.
Uomini, donne, bambini, la sedia portata da casa, in attesa.
Le luci già accese, le ultime prove degli altoparlanti.
Vai e vieni di artisti e assessori, un attimo di luce ad illuminarli e poi il buio improvviso, forse non a caso.
Un bambino piange, vuole il gelato.
Una vecchina si è addormentata, quando si comincia?
Un gruppo di giovani fa schiamazzi.
Un signore in cravatta li zittisce.
“Ssst… sta arrivando la Cultura!”
Il prete, dal portone della chiesa, scuote il capo rassegnato.
I circoli cittadini aperti, gli ex allineati, emblemi e medaglie bene in vista.
Finestre e balconi affollati.
C’è anche Cosimino, un gagliardo novantenne, su quel balcone là in alto vicino all’insegna del dentista con denti e dentiere bene in vista.
Chissà mai che un giorno non possa anche lui…
Improvviso un rullo di tamburi.
Il silenzio copre il brusio.
Una tromba, i clarini, l’orchestra è scatenata.
Ballerine e cantanti, colori sgargianti, luci colorate.
Canti, balli, musiche esotiche ed anche nostrane.
Ma, ahimè, dopo i primi entusiasmi, esaurita la curiosità, la serata ormai langue.
Noia e stanchezza nei volti degli spettatori, delusione negli attori.
Già qualcuno, la sedia sottobraccio, si è alzato.
Anche Cosimino, il novantenne che sogna la dentiera, è visibilmente annoiato.
Qualche schiamazzo.
L’assessore pensoso.
“Ed io che volevo proporre una serata dedicata alla cultura! Questa gente non merita nulla!”
Improvvisamente un’intuizione, o forse tutto era preparato.
Una ballerina, alta, mora, olivastra la pelle, i capelli lunghissimi, certamente la più bella e avvenente, fa un gesto inaspettato.
Il due pezzi del costume sgargiante privato della parte superiore.
Il reggiseno, tanti nastrini colorati, vola nel cielo.
I seni, tondi, giovani, provocanti, liberi in un’esplosione di innocente pruriginosa voglia di trasgressione.
Anche la vecchina si è svegliata.
Il bambino non vuole più il gelato.
Cosimino, mannaggia ai suoi novant’anni, che già si stava allontanando, si è letteralmente aggrappato alla ringhiera del balcone trattenuto a fatica dai nipoti allibiti…
Respinto il braccio di chi lo vuole trattenere, Cosimino inforca gli occhiali.
“Adesso sì che si comincia a ragionare!” esclama soddisfatto.
Il prete si allontana scandalizzato.
L’assessore ha ritrovato il sorriso.
Ancora una volta la “cultura” ha trionfato.

venerdì 1 maggio 2009

un lettore mi ha scritto

Al Corriere di Como,
sono indignato dal comportamento dei tifosi che hanno intonato cori razzisti contro un giocatore di colore durante la partita tra Juventus e Inter.
Poiché questi episodi si ripetono con preoccupante frequenza negli stadi devo pensare che gli italiani, e non solo essi, siano razzisti?
Com’è possibile debellare questo intollerabile atteggiamento dei tifosi negli stadi?
Cosimo Lenti


Caro lettore,
il dibattito seguito ai cori di intolleranza nei confronti del calciatore Balotelli, italiano di colore, ha toccato vette di inimmaginabile degrado linguistico e sconfortante rilassamento della ragione.
Abbiamo imparato che negli stadi alcune poco signorili espressioni hanno diritto di cittadinanza: “scemo, cornuto, figlio di…, devi morire” e via maledicendo sono considerate naturali e logiche esternazioni di sensazioni e sentimenti dettate dai piedi senza alcun afflato del cuore o della ragione.
Eppure chi ama il calcio, ed io sono tra quelli, sa che il gioco del pallone trova nei piedi dei calciatori solo il mezzo, neppure più nobile, per liberare intelligenza, cuore, fantasia, estro, creatività, passione.
Il gol, la rete che vibra, il pedatore sommerso dai compagni, la pazzia contagiosa dei tifosi che si abbracciano senza distinzione di sesso o condizione sociale, è liberazione dello spirito, esplosione di felicità, sfogo che vale almeno un ciclo completo dallo psicologo al costo di un biglietto d’ingresso allo stadio.
Questa sorte di follia collettiva che dura novanta minuti è in realtà una rappresentazione teatrale nella quale ogni attore, calciatore, tifoso, arbitro, recita volonterosamente la sua parte.
Il campione dribbla, lo spettatore applaude e impreca, l’arbitro sbaglia a prescindere (come direbbe Totò).
La partita è tragedia, commedia, farsa: la trama è sempre la stessa, l’imprevedibilità degli attori e la cieca irrazionalità della fortuna regalano tuttavia ogni volta nuove e impreviste emozioni.
A teatro quando cala il sipario tutto finisce, rimangono solo pacate o vive sensazioni.
Allo stadio, quando l’arbitra fischia la fine, comincia un’altra partita che nulla ci azzecca con quella giocata sul campo.
La moviola viviseziona ogni sussulto, il saccente paludato sentenzia dalla poltrona, la televisione spegne le telecamere sul campo ed accende i riflettori sui protagonisti.
Il calcio parlato assume il sopravvento su quello giocato.
Le disquisizioni assumono allora valore filosofico e letterario, si colorano di ammonizioni moralistiche e filologiche.
Si dispensano saggi principi e regole di comportamento: “scemo” si può intonare, “devi morire” è sconsigliabile, “bastardo” deprecabile, “negro di m.” proibito…
La miseria morale di una classifica delle espressioni di dileggio è squallido segnale dell’insignificanza della ragione annichilita dalla prepotenza dell’ignoranza e dell’irragionevolezza.
L’espressione o l’atteggiamento intollerante dei tifosi peraltro sempre nei confronti degli avversari ( i “diversi” con braghe e maglietta dei nostri colori sono invece “uguali”), a mio avviso, va severamente punito e osteggiato con provvedimenti adeguati.
Io credo, tuttavia, che certi deprecabilissimi atteggiamenti di molti tifosi durante quei novanta minuti di straripante incontrollata ebbrezza, non siano il segnale di un atteggiamento “razzistico”, ma solo espressione di scarsa o inesistente educazione oltre che di una ridotta padronanza lessicale.
Allo squallore della questione non credo sia estranea la fumosa verbosità di molti commentatori, la saccenteria di troppi soloni, la mancanza di misura nei giudizi, la pretestuosa accentuazione di presunte intenzioni o comportamenti degli attori sul campo e fuori di esso.
Divieti, multe, riprovazioni, squalifiche, forse possono essere lieve argine al degrado.
Restituire al pallone la dignità di un gioco fatto con cuore e ragione e non solo con i piedi, appare ambizioso ma necessario obiettivo.
Un’iniezione robusta di educazione accompagnata da una rivisitazione del dizionario per tutti i protagonisti appare utile allo scopo.
Cordialità

Una storia forse vera

La propaganda elettorale

Borgo Gentile, un paese di pochi abitanti.
Le case tutte bianche.
Intorno la campagna.
Vigneti e uliveti a perdita d’occhio.
Il calendario non lo dice, ma oggi è giorno di festa.
Un carro bianco, fiori colorati ad ornarlo.
Quattro cavalli maestosi, il passo solenne, a trainarlo.
A cassetta un uomo, le lunghe redini fra le mani.
Dietro, sorridenti, moglie, figli, parenti ed amici più cari.
Davanti la banda.
Con tutti gli strumenti, anche il tamburo.
I suonatori con la divisa della festa.
Dai loro cuori, attraverso trombe e clarini, una musica allegra, ma malinconica.
Gregorio, l’uomo a cassetta, saluta felice il paese.
Domani deve partire.
Per il Paradiso.
E’ questa un’usanza di Borgo Gentile.
I morti, prima di morire, attraverso la piazza e le vie, per avvertire.
“Amici, domani non mi cercate!
La mia nuova casa è lassù, in Paradiso!”
E questo per tutti.
Poveri e ricchi, letterati e analfabeti, onesti e imbroglioni.
Una volta nella vita, al centro dell’attenzione, salutati e riveriti da tutti.
Avviene così a Borgo Gentile perché, tale Giovanni, un giorno era morto, ma poi aveva dovuto tornare in vita.
Arrivato alla soglia del Paradiso, un angelo gli aveva detto: “Giovanni, mi spiace, ti devo rimandare sulla terra.
Come vedi, oggi c’è molta confusione, dovresti aspettare a lungo.”
Giovanni, anche i morti sono curiosi, lo sguardo intorno per vedere, capire.
“Il Paradiso mi sembra davvero niente male!” ed era tornato a raccontare.
Per questo la morte a Borgo Gentile è un momento di festa.
Ma ahimé, questo mal si concilia con chi non crede nel Cielo.
Il sole, la luna, le stelle non esistono!
Sono solo fantasie, miraggi, sogni colorati!
“Cittadini, ragionate!
Da oggi il funerale solo da morti.”
L’ordinanza firmata dal sindaco e dal consiglio comunale.
Non più il saluto agli amici dal carro ornato di fiori.
E neppure attraverso il paese, ma direttamente al cimitero.
Per questo a Borgo Gentile adesso nessuno vuole morire.
Si sono tutti attaccati alla vita.
E non la vogliono lasciare.
E quando è il momento, questo è il destino delle cose e degli uomini, è pianto e tristezza.
Chi muore e chi resta grida, piange, si dispera.
Ma è ormai tempo di elezioni.
Un cartello, una promessa.
“A Borgo Gentile sarà vietato morire.”
Anche Giovanni, quello che era dovuto ritornare in terra, sia pure per poco, dalla sua nuvola ha letto.
E’ preoccupato.
Aspetta da tempo i suoi vecchi amici.
Ha voglia di fare una partita a carte con Gigi, Cosimino e Gregorio.
“Fra poco, ha detto l’angelo che tiene la contabilità del Cielo, arriveranno!
Ho già riservato una nuvola per loro, laggiù!”
“Ma adesso, con questa nuova ordinanza del sindaco…” pensa Giovanni.
Di fronte il buon Dio, che legge nell’anima dei vivi ed anche dei morti, lo guarda e sorride.
“Stai tranquillo Giovanni, è solo propaganda elettorale!”
Giovanni adesso è sereno.
E corre sulla sua nuvola rosa a preparare le carte.

venerdì 3 aprile 2009

Comaschi e tesori artistici

Lettera e risposta sulla posta dei lettori di domenica 29 marzo 2009 sul Corriere di Como

Al prof Romano,
le racconto un episodio a cui ho assistito ieri. Passando dalle parti di Porta Torre ho visto un gruppo di giovani davanti al liceo classico. Una guida illustrava la storia dell’edificio e delle colonne del porticato. Al termine, la guida, credo fosse un professore e i turisti una classe in gita, si è rivolta ad un passante per chiedere dove fosse la Torre Gattoni.
Questi era in grande imbarazzo, probabilmente perché non lo saapeva, finché è intervenuta una signora con un accento inequivocabilmente straniero che con grande naturalezza ha spiegato dove fosse e come arrivarci.
Ho deciso di fare un bel ripasso del pochissimo che ho imparato a scuola sul patrimonio storico e artistico di Como.
Faccio bene?
Nello Putto


Caro Nello,
non fa bene, fa benissimo a ristudiare la storia di Como.
Riscoprire la propria città regala sensazioni inaspettate.
L’episodio a cui lei ha assistito non è esaltante.
Ma non credo sia esclusivo dei comaschi sapere poco della proprio città…
Confesso che anche a me è capitato un episodio analogo, però sono stato più fortunato di quel passante.
Una giovane coppia con una cartina di Como sotto Porta Torre tentava di orientarsi con scarso successo.
Passavo di lì e la ragazza si è avvicinata e mi ha chiesto in inglese come arrivare in via Mentana dove secondo la guida doveva esserci Casa Terragni…
Il mio inglese non è di Oxford tuttavia me la sono cavata ed ho indicato loro il percorso per andare in via Mentana.
Poi li ho seguiti da lontano e così ho imparato, io comasco da due inglesi, che dalle parti del mercato c’è “Casa Terragni” e ho finalmente capito perché tutti i turisti giapponesi che passano di lì per recarsi in centro si fermano ammirati davanti a quel palazzo e scattano foto in quantità.
Mi reputo doppiamente fortunato.
Primo, perché se mi avessero chiesto dove fosse “Casa Terragni” sarei cascato dalle nuvole con relativa brutta figura.
Secondo, perché è stata l’occasione che mi ha indotto a riscoprire il grande architetto milanese, che tuttavia noi comaschi consideriamo nostro concittadino per le tracce che ha lasciato a Como del suo genio in palazzi, monumenti, asili, e in particolare per la “Casa del Fascio” attualmente sede della Guardia di Finanza.
Lei ha ragione, a scuola ben poco si parla dei tesori artistici della nostra città.
I nostri ragazzi, e non solo loro, sanno tutto dei musei di Parigi e Londra, ma quasi nessuno sa qualcosa della basilica di san Fedele o di Sant’Abondio…
Io credo che Como abbia tutte le caratteristiche per ritenersi una città turistica: il Cielo le ha ritagliato uno spazio di incredibile fascino, i grandi artisti del passato hanno lasciato un ricco patrimonio architettonico, gli amministratori locali dimostrano di essere sensibili al fascino dell’arte e della storia con opere di restaurazione e valorizzazione della nostra tradizione culturale.
Che Como sia città d’arte lo dice la frotta sempre crescente di scolaresche con professori al seguito che sempre più frequentemente avviene di incontrare per le vie della città.
Lo dimostra il numero di turisti stranieri sempre attenti a non perdere una sola parola della guida con il solito ombrellino colorato sollevato verso l’alto per non farsi perdere di vista dai più distratti.
Ottima occasione anche per noi le guide…
Io spesso mi accodo ad un gruppo a caso, possibilmente di italiani e ascolto attento riscoprendo un mucchio di cose sulla mia città che, forse un giorno mi avranno anche insegnato, ma adesso mi sembrano del tutto nuove.
Ieri mi sono accodato ad un gruppo davanti alla casa natale di Volta e finalmente ho scoperto dov’è la fatale (per quello sfortunato passante) Torre Gattoni.
Dove sia, caro Nello, non glielo rivelo. Non voglio toglierle il piacere di scoprirlo magari confondendosi in un gruppo di turisti o in una classe di studenti a zonzo per la città.
Grazie per la lettera
Cordialità

mercoledì 25 marzo 2009

Idriz e fantasia

Caro "anonino",
è stato per me piacere non già epidermico, piuttosto dello spirito, avere letto il suo bel commento alle mie farneticazioni della fantasia che ha ormai definitivamente prevalso sulla razionalità...
Par di riassaporarla l'acqua che "buscia".
L'acqua senza sapore è il pensiero semplice, freddo, vero, reale.
Poi in quest'acqua (nei pensieri) sciogli la bustina di "idriz" (la fantasia) ed ecco il miracolo dell'acqua che "buscia", ovvero del pensiero arricchito di sentimento che commuove e ti fa vibrare "dentro" sull'onda dei ricordi...
Queste note sballate sono la prova provata che l'acqua che "buscia" o meglio il ricordo impreziosito dalla fantasia è reale, accidenti se è reale, al punto che quasi quasi crediamo e ci convinciamo.. che davvero allora tutto fosse così "frizzante e saporito"...
Fortuna

Il dialetto a scuola

Domenica 22 marzo un lettore mi mandato questa lettera curiosa e stimolante

Al Corriere di Como,
ho letto sul vostro giornale che un comasco su dieci tra le mura di casa parla in dialetto, uno su quattro alterna italiano e dialetto, uno su cinquanta parla solo ed esclusivamente in dialetto con gli estranei.
Sono numeri e percentuali che però probabilmente riguardano solo le persone di una certa età.
Io, in città ed anche nei paesi, non sento mai parlare in dialetto i giovani e quindi credo che il dialetto sia destinato a sparire.
Non sarebbe una bella cosa se, per non perderlo, lo si insegnasse a scuola?
Antonio Perucci




Caro lettore,
mettere il dialetto tra le materie scolastiche?
La mia prima spontanea risposta, essendo uno di quei venticinque comaschi su cento che alternano italiano e dialetto, è chiarissima: "Chi a Com, gh'hemm minga temp, num, de dagh a trà ai ball de la gent!”
Traduco in simultanea: “ Qui a Como, non abbiamo tempo, noi, di dare retta alle “balle” della gente”.
La risposta è chiara sia in dialetto che in italiano: no al dialetto in aula.
No, perché il dialetto non si può imparare, cresce insieme a noi, ce l’hai dentro da sempre.
Il dialetto non è solo un mezzo per comunicare come qualsiasi lingua, costruita su rigide regole grammaticali e sintattiche, è molto di più,
E’ tradizione popolare e culturale fedele nel tempo, insensibile agli umori delle mode.
Passione, amore, compiacimento, delusione, rabbia, ironia, sono sentimenti che in dialetto prendono forma e, attraverso la leggerezza, o la pesantezza, comunque coinvolgente dei termini, affascina e trascina.
Nella ricchezza lessicale del dialetto il dramma si stempera, la battuta anche indelicata non scandalizza, se mai induce alla risata.
Caro Antonio, chi auspica che il dialetto sia insegnato a scuola non vuole bene alla scuola e neppure al dialetto.
Io amo il dialetto, qualche volta lo parlo, lo ascolto con piacere, mi intriga coglierne lo spirito di saggezza popolare.
Distinguo il milanese dal comasco e dal ticinese.
Dolce, avvolgente e musicale il vernacolo meneghino, duro e spigoloso quello dei cugini ticinesi, a metà strada tra i due il nostro.
Il dialetto a scuola sarebbe la morte del dialetto stesso e ulteriore dispregio all’italiano.
Meglio riservare le intraducibili espressioni dialettali ad occasioni più intriganti come avvenne in tempi lontanissimi ad un amico di Monte Olimpino in una balera di Mendrisio.
Al suo garbato invito “vuole ballare?” rivolto in forbito italiano ad un “belèe de tosa” si sentì rispondere “Istù, sum sciàa par quèll”” in un raggelante teutonico vernacolo.
La straripante forza espressiva del dialetto come usuale mezzo di comunicazione diventa ostacolo per i ragazzi nell’apprendimento dell’italiano.
Lo sapevano, e lo sanno anche oggi, molti genitori che, pur parlando spesso in dialetto tra loro, pretendono che i loro figli si esprimano in italiano.
Una volta mi trovai a fare gli esami di maturità in un paese dove tutti, studenti e professori, parlavano in dialetto.
Sono rimasto ammirato dai ragazzi e ne ho premiato l’impegno per la prontezza con cui traducevano le domande rivolte loro italiano, pensavano la risposta in dialetto e replicavano in italiano.
Il colloquio di inglese era un vero e proprio raid linguistico: dall’inglese all’italiano, dall’italiano al dialetto, dal dialetto all’inglese nelle domande, percorso inverso nelle risposte.
L’è mej stà schisc.
Lasciamo il dialetto dov’è.
Ciciarem in piazza e sul lagh, ma a scuola, per favore parliamo in italiano.
E’ il mio parere, il parere di uno che al “Te se regòrdet?” di qualche amico meno giovane si arrende a quel dolce “magon” intraducibile in italiano.
La ringrazio per la sua lettera.
“Adèss però l’è mèj dàghen on tàj”…
Cordialità

martedì 17 marzo 2009

Il drago verde

Domenica sul Corriere di Como una lettrice mi ha scritto una bella lettera.
Mi piace riproporla insieme al mio commento

Il vostro giornale ha dato notizia dell’iniziativa del comune di San Siro, in alto lago poco dopo Santa Maria Rezzonico, di installare nella piazza del paese una fontana dalla quale i cittadini possono prendere del tutto gratuitamente a piacimento acqua naturale o gasata.
Credo che sia un bel risparmio per molte famiglie non dovere più comperare l’acqua al supermercato ed anche per il comune che deve smaltire la plastica delle bottiglie.
In questi tempi di crisi finalmente una buona iniziativa concreta.
Non vi sembra che altre amministrazioni dovrebbero copiare l’idea?
Perché se ne è parlato così poco?
Perché non si fa anche a Como?
Distinti saluti
Maria Fontana

Cara lettrice,
le rispondo pescando nella memoria del tempo .
“Ti offro da bere al Drago Verde” : tono e parole dell’invito di un amico incontrato casualmente in “vasca”.
La “vasca” è il primo tratto di via Vittorio Emanuele partendo da piazza Duomo, cosiddetto perché da sempre è il luogo di passeggio (su e giù) di moltissimi comaschi.
E si è avviato verso piazza Cavour.
Si è diretto verso la bellissima fontana (eccolo il drago verde) e mi ha invitato a bere a volontà.
Mi sono chinato, un po’ goffo nella mia imperizia, ed ho bevuto a garganella.
L’acqua era fresca, buona e per di più gratis.
Da allora anch’io, agli amici, offro da bere al “drago verde”.
Ho ritrovato in casa fra le cose che non si usano più ma che non si buttano perché non si sa mai, un aggeggio ingegnoso che si trasforma facilmente in bicchiere.
Mi è stato utilissimo secoli fa quando accompagnavo le mie piccole in bicicletta ai giardini a lago, adesso lo uso per me e per i miei amici non schizzinosi.
Da molti anni passo le vacanza in un bellissimo paesino del Salento, in Puglia. Là, la gente fa la fila alla fontana per rifornirsi di acqua, moltissime case hanno sul terrazzo un grande contenitore per l’acqua o la cisterna in giardino.
La preziosità di questo elemento la tocchi con mano e la vedi con gli occhi.
Queste note, cara lettrice, mi sono state suggerite dalla sua bella lettera a proposito della lodevole iniziativa di un comune dell’alto lago di installare una grande fontana in centro del paese dove i cittadini possono riempire le bottiglie di acqua naturale o effervescente e portarsela a casa senza spendere nulla.
L’effervescenza, quelle bollicine di anidride carbonica, che tanto piaciono, non è recente conquista.
I meno giovani forse ricordano le bustine di Idriz o di Idrolitina, intrugli miracolosi che trasformavano l’insapore acqua del rubinetto in bibita frizzante, gustosa e ambita.
Lei ha ragione, signora Fontana, acqua effervescente o naturale per tutti e gratis è concreto spot graditissimo al portafoglio dei cittadini e utilissimo alle casse del comune perché comporterà una riduzione dei rifiuti di plastica delle bottiglie e quindi un minore costo per il smaltimento.
L’iniziativa sembra avere trovato entusiasti proseliti: cinquantaquattro comuni di Brescia hanno copiato il progetto ribattezzato “punto acqua” ed entro un mese altri cinquantatre si aggiungeranno alla lista.
Non so quanto il successo dell’iniziativa possa piacere a coloro che del commercio di acqua vivono, tuttavia, cara signora, io mi associo al suo entusiasmo.
In casa mia, in verità, mia moglie ed io da tempo beviamo l’acqua del rubinetto (senza bustine), mia figlia no, lei usa acqua frizzante ma non troppo.
Il mio entusiasmo nasce dall’intrigante idea di potere invitare i miei amici al solito “drago verde” e, porgendo il mio vecchio bicchiere di plastica, chiedere “naturale o gassata?” con malcelata “effervescente naturalezza”.
Si realizzerà il mio innocente sogno?
Ho speranza che sindaco ed assessori leggano queste note.
Poi chissà… non poniamo limiti ala Provvidenza.
Ultima nota: l’acqua è uno dei temi dell’Expò 20015.
Fra le mille proposte avanzate il “punto acqua” non mi sembra affatto sfigurare, anzi…
Signora Fontana, il suo nome sembra inventato per l’occasione, la ringrazio per le sue osservazioni.
Cordialità

Quelle otto lunghissime ore

"La cruna del lago" è rubrica di divagazione qualche volta seriosa, più spesso leggera, curata dall'autore di queste note sul mensile "Como e dintorni".
Il tema di questo mese è per me intrigante e inquietante.
Varrebbe discuterne.

"La cruna del lago" di renzo romano

Quelle otto lunghissime cortissime ore

Un amico carissimo, qualche mese fa, è stato sottoposto ad un complicato intervento al cuore.
Mi ha raccontato con estrema delicatezza e reticenza, quasi di timore, che da allora è tormentato da un pensiero inquietante.
Ascoltiamolo.
“Dottore, ma dove ero io in quelle otto ore in cui la mia vita(vita?) dipendeva da una macchina?”
Il cardiochirurgo mi ha guardato e mi ha sorriso, soddisfatto per la completa riuscita dell’intervento.
Mi ha sorriso, ma non mi ha risposto.
Già dove sono stato in quel lunghissimo (per i miei cari coscienti) e brevissimo( per me incosciente) intervallo di tempo?
Il mio corpo era lì, steso su un lettino, mentre attorno si agitavano scientemente medici e infermieri.
Lo hanno visto in tanti, e tutti sono pronti a giurare che ero proprio io quella persona (persona?) piena di tubi e fili, distesa su una specie di tavolo bianco e illuminata da lampade accecanti.
Ma l’altro, o forse lo stesso io, quello che non si vede, non si tocca, ma si sente, eccome si sente, dov’era?
La domanda è intrigante.
La razionalità si scontra con ogni possibile risposta.
L’altro mio “io”, comunque lo si chiami, pensiero, anima, soffio vitale, sentimento, non era lì con me perché non ho traccia della sua presenza nella memoria: otto ore di vuoto assoluto.
Tento di dare ordine ai miei pensieri.
Se questo “io” cessa di esistere al momento in cui una macchina tiene in vita l’altro “io”, allora significa che gli “io” sono due: uno che vedi e tocchi, l’altro che senti, ma che non sono legati.
Spero di non essere blasfemo se affermo che il primo “io” può vivere anche senza il secondo.
Sul secondo “io”, quello che non si vede, non so dire se può esistere senza il primo. Io non l’ho sentito in quelle otto ore, pertanto dovrei dedurre che se n’è andato (chissà dove) per ritornare al momento del risveglio del primo “io”.
Mi accorgo che i pensieri si avviluppano in un vortice di razionale irrazionalità che va oltre le mie capacità di intuire, non gia di comprendere, che cosa si nasconde dietro la mia domanda: “dov’ero in quelle otto ore?”
Vita, anima, pensiero: confesso la mia assoluta incapacità non solo di definirli, ma neppure di descriverli.”
Dopo questa rassegnata dichiarazione d’impotenza della ragione il mio amico mi ha guardato in attesa di qualcosa.
L’ho guardato, ho sorriso, proprio come il cardiochirurgo.
Poi il silenzio

venerdì 13 marzo 2009

Baradello

Giovedì sera ho avuto il privilegio di essere stato invitato dagli "Amici del Baradello" per parlare di "Expò e scuola".
La cena alla baita, complimenti veri davvero al cuoco, forse non ha favorito la lucidità del mio raccontare, tuttavia il piacere di vedere attorno volti soddisfatti e curiosi e la riscoperta di vecchie amicizie rese labili e impalpabili da un calendario irrispettoso, ha colorato la mia serata di bellissime sensazioni.
L'incomparabile panorama della città visto dal Baradello grazie ad una serata straordinariamente nitida ha fatto il resto.
"Expò e scuola" sono temi interessanti che forse toccheranno il nostro futuro vivere.
Quel "forse" fa la differenza con la certezza di un gruppo di amici, una baita accogliente, una cena straordinaria nella sua miracolosa semplicità, il cuore che si apre di fronte alla meraviglia di una città che, vista dall'alto, appare immeritato dono del Cielo.

domenica 18 gennaio 2009

L’ironia di Romano nella scuola delle veline
di Lorenzo Morandotti





Sono passati quasi vent’anni dalla pubblicazione di Io speriamo che me la cavo di Marcello d’Orta, divertente “sciocchezzaio” che ha aperto una finestra inedita sul mondo della scuola. Poi sono arrivati i lavori di Domenico Starnone (Ex cattedra) e di Paola Mastrocola (La scuola raccontata al mio cane), che è stata di recente ospite alla libreria Ubik di Como. Ultimamente il grande successo di critica e di pubblico di La classe di François Begaudeau diventato anche un film, che parla dei disagi di studenti e insegnanti nella scuola di oggi, ha richiamato l’interesse per l’argomento. In forma di diario ma con l’arguzia pungente e mai volgare del moralista classico, il comasco Renzo Romano interviene in questa particolare pubblicistica con un originale contributo editoriale, Le veline fanno bene alla matematica. È una pubblicazione fuori commercio dell’azienda “Grisoni Sistemi Didattici” di Grandate, con illustrazioni di Michele Testori (per ricevere una copia gratuita del libro, salvo spese di spedizione, si può inviare una email a prof.mobius@grisoni.com). Le storie di scuola raccontate da Romano - editorialista del “Corriere di Como”, dove cura ogni domenica la posta dei lettori - sono pagine di vita vissuta trasfigurate da ironia gustosa che fa riflettere.
Pagina dopo pagina, ecco scandita dalla penna di Renzo Romano, e dalla matita divertente del suo commentatore per immagini, l’affresco di una commedia umana vissuta nel quotidiano delle aule, dei programmi, dei compiti in classe, nel gossip dei consigli di istituto. Un’epopea didattica fatta di mille episodi tragicomici su cui regna sovrana, come una nemesi che tutto avvolge e permea, la burocrazia. Con le sue ataviche resistenze e le sue farraginose novità. Non ci sono primedonne o gregari nel mondo di Romano. Tutti sono nella stessa barca: gli allievi alle prese con le fatiche dello studio e delle autogestioni, i docenti giovani e quelli alle porte della pensione e le bidelle sexy. Il sorriso contagioso di Renzo non dà giudizi, ma solleva interrogativi e suscita ilarità. E soprattutto colora di simpatia un mondo che le cronache vorrebbero soltanto luogo di conflitti e polveroso.

Lorenzo Morandotti


Nella foto: Renzo Romano, già docente di Matematica all’istituto Teresa Ciceri di Como e vicepreside dello stesso istituto, è editorialista del “Corriere di Como”. Il suo libro Le veline fanno bene alla matematica è edito dall’azienda “Grisoni Sistemi Didattici”

giovedì 8 gennaio 2009

L'animo si specchia nel Cielo.
La pioggia dopo la neve conforta i disagi, ma non favorisce l'umore.
“Voglia di pianto” racconta un difficile pomeriggio d’estate davanti al computer in un luogo amatissimo ed odiatissimo…

VOGLIA DI PIANTO
Perchè tanta voglia di pianto?
Mi accorgo che c’è squilibrio tra me e quello che mi circonda.
Non c’è armonia, allora le lacrime si propongono quale pietoso aiuto per annullare la discrasia di umore tra i pensieri che confusi sgomitano nella mia mente e la ridda di sensazioni che l’ambiente sollecita in me.
Ma neppure il pianto riesce a calmare la sete di un’anima che si tormenta e tormenta chi la circonda sia pure di attenzioni.
Io amo e odio questi luoghi.
Li amo perché la mia memoria si è forgiata su di essi.
Li odio perché i miei ricordi scorrono su binari levigati dal dolore più lacerante, ripercorrono su e giù per i tristi viali ogni istante del mio arrancare faticoso nel tempo.
Il fruscio degli ulivi è un canto accorato che mi spezza l’anima, l’informe nuvola disegna il volto tanto amato, il silenzio è attesa spasmodica del frastuono.
Il tic tac dei tasti è musica stonata incapace del minimo conforto.

martedì 6 gennaio 2009

Da qualche giorno sono su facebook.
Si allunga la lista dei miei "amici".
Riscopro i volti di molti miei ex studenti.
Ogni volta si rinnova l'emozione del ricordo.
Sempre è rivivere le sensazioni passate eppure dentro di me.
In questi tempi leggo Cesare Pavese.
Mi ritrovo nella sua convinzione che le cose si scoprono veramente attraverso i ricordi che se ne hanno, ricordare una cosa significa vederla per la prima volta.
Io credo che la memoria sia un meraviglioso regalo del Cielo.
Tenerla in esercizio fa bene al "cuore" in senso fisico, ma fa bene soprattutto al "cuore" dentro, quello che sobbalza ad ogni sorriso di chi ti sta attorno ti fa scoprire i valori che contano nel nostro vivere.
Oggi dicono sia arrivata la Befana, quella con la scopa e le scarpe rotte.
A me non sta simpatica e non mi sembra neppure troppo intelligente: in tempi di saldi un paio di scarpe nuove ed anche un aspirapolvere potrebbe comperarselo.
Preferisco la neve.
Crea disagi fuori, ma gioia dentro.
Ed io tifo per il "dentro".

giovedì 1 gennaio 2009

Recensione de "Le veline fanno bene alla matematica" su "La Provincia" di Como

Cultura e Spettacoli
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Veline & matematica
E' la scuola di Romano

Miserie e glorie scolastiche narrate con ironia da un professore comasco di lungo corso

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Il professor Renzo Romano
Una divertente caricatura della scuola, o meglio, della routine un po’ surreale che riempie le ore e le aule di un’umanità varia, sempre in balia di regole incontrastabili, di registri blu da compilare, di primi e ultimi della classe, di docenti austeri o "democratici", di immancabili ex-sessantottini illusi o disillusi, di precari, di bidelli, di genitori... Fuoriesce così, dalla penna di Renzo Romano, un mondo della scuola sorpreso nelle sue pieghe più reali, colorite e bizzarre. U n mondo in continuo fermento, che pure resta paralizzato in convenzioni statiche ed immutabili, carico di paradossali disfunzioni bilanciate, in qualche misura, da ventate di sorprendente creatività, la stessa che riesce a strappare un sorriso, uno sguardo disincantato e ironico su una vicenda tutta da ricordare di gusto, tutta da raccontare. In centodieci brevissimi racconti l’autore intreccia l’esperienza di insegnante con la fantasiosa verve del giornalista, dimensioni che convivono nel suo impegno professionale, traducendo così le percezioni sedimentate in anni di scuola in invenzioni del tutto credibili. A legare insieme piccoli brani di un’avventura scolastica vissuta in ogni sua dinamica, dalle ore di autogestione a quelle del compito in classe o della gita, è uno sguardo ironico e disinvolto, capace di cogliere i lati paradossali che inducono al sorriso più che al sarcasmo. «La Bonazza, il Crapone, la Caciottina, la Mezzacalza, la Strippa, il Galilei, le veline (alcuni dei personaggi che animano i racconti ndr) ritornano nel mondo immaginario creato dalla mia fantasia» ammette l’autore della raccolta di storie che furono pubblicate su queste stesse colonne de «La Provincia» qualche tempo fa. E d’altra parte precisa: «Disagi, soddisfazioni, amarezze, preoccupazioni, speranze, delusioni, sono invece realtà sofferta e partecipata per tutti coloro che la scuola amano». L’amarcord, vivacizzato dai disegni di Michele Testori e pubblicato grazie al coinvolgimento di Daniele Grisoni titolare della «Grisoni sistemi didattici», scorre in oltre 230 pagine. «Le veline fanno bene alla matematica» è il titolo della pubblicazione fuori commercio che può essere richiesta gratuitamente inviando una e-mail a prof.mobius@grisoni.com <+G_FIRMA>Laura d’Incalci

lunedì, 29 dicembre 2008

Le veline fanno bene alla matematica

gennaio 2009
“Le veline fanno bene alla matematica” è una raccolta non troppo ragionata di storie di scuola pubblicate sul quotidiano “La Provincia” di Como.
Sono storie inventate ma forse vere, o piuttosto storie vere forse inventate?
Impossibile rispondere perché realtà e fantasia nelle aule di una scuola si confondono, si mescolano, si supportano, si deformano per colpa o merito della magia coinvolgente ed estasiante del mondo giovanile.
Le storie raccontate nel volume sono una sorta di diario del mitico, inventato forse vero, prof Mobius che si guarda attorno, osserva i colleghi, il preside, i bidelli, gli studenti, gli avvenimenti e poi ne scrive senza troppo curarsi della grammatica.
Sono storie allegre e tristi, paradossali e seriose.
L’ironia che traspare non è malanimo o risentimento per il mondo della scuola, è invece ringraziamento sentito per la fortuna di farne parte.
Non sempre la scuola sa ridere di se stessa.
In questi racconti almeno sorride.
Le illustrazioni sono parte integrante dei racconti
I protagonisti, ancorché prodotti della fantasia dell’autore, prendono forma e consistenza nei disegni che tratteggiano con sapiente ironia i loro vizi e le loro virtù.
Così, arricchite dalle vignette, le brevissime storie si elevano ad affreschi di vita scolastica.
L’idea di un libro “illustrato” sulla scuola, com’erano le raccolte di favole di non troppi anni fa, è rimasto per anni nel mondo delle intenzioni.
Poi, incredibilmente, il progetto ha preso forma e sostanza.
La sensibilità di un amico preziosissimo che ha creduto nell’idea e la creatività di un disegnatore che ha saputo cogliere lo spirito delle storie raccontate ne ha permesso e favorito la realizzazione.
La copertina del libro è una meravigliosa e commovente foto di classe scattata nel lontano 1948 nella scuola elementare “Fulceri Paolucci de Calboli” di Ponte Chiasso.
Forse qualcuno si riconoscerà fra quei volti ed allora malinconia, rimpianto e un dolce umanissimo “magone” li accompagnerà nel ricordo.
Molti degli alunni di questa foto oggi sono nonni, e fra questi anche l’autore dei racconti: la dedica ai quattro nipoti di autore ed editore del libro è speranza nel futuro con mente e cuore non dimentichi del passato.
Il libro al momento non è disponibile in libreria.
Chi fosse interessato può inviarmi una email all'indirizzo: rromano@corrierecomo.it